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Architettura esperienziale

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Architettura esperienziale


 

Gli studi di neuroscienza confermano le intuizioni di molti architetti: è proprio l'alternanza tra pieno e vuoto a bilanciare i due emisferi del cervello, stimolando intelligenza, intuizione e fantasia.

 

‘Quanto costano in termini di benessere fisico e di equilibrio psicologico un design trascurato, coloranti da quattro soldi, suoni, strutture e spazi privi di senso?’
Se lo chiedeva James Hillman, nel suo La politica della bellezza (Moretti&Vitali). Potremmo aggiungere: quanto costa in termini di salute il fatto che gli spazi cittadini, le stazioni ferroviarie, le piazze siano invasi da ogni genere di baracchina, chiosco, gazebo? Oppure ritrovare le stesse vetrine, con gli stessi arredi e le stesse insegne in ogni città del globo? Lo spazio non è qualcosa di neutro, ma un vero e proprio generatore di stati di coscienza. Questo nuovo paradigma sta generando nuove esperienze, incontri trasversali tra discipline che in genere si ignorano, come l’architettura e la medicina.

Politecnico di Milano, facoltà di architettura, corso di teoria dell’urbanistica. A tenere la lezione c’è un medico psicosomatista. Spiega come diverse organizzazioni dello spazio determinano specifici stati di coscienza: una trattoria piena di tavolini, seggiole, quadri e trofei produce sensazioni molto diverse rispetto a un ristorante giapponese arredato zen. Ogni spazio ha un effetto sul nostro sistema nervoso e in un grattacielo, probabilmente, respireremo in modo diverso rispetto a una vecchia cascina di campagna. Il corso sulle relazioni tra spazio, corpo e mente -che si è concluso di recente al Politecnico- è stato organizzato da Clara Cardia, già docente di urbanistica alla Università di Ginevra e alla Columbia University e oggi professore associato al Politecnico. Clara Cardia è abituata alle incursioni disciplinari: “Quando mi sono formata a New York, alla fine degli anni Sessanta, sono stata catturata da una disciplina –allora era del tutto nuova- che si chiama Environmental Psicology, e che studia il rapporto tra l’uomo e l’ambiente. Mi interessava capire la dimensione umana nell’uso degli spazi cittadini, un aspetto che l’urbanistica spesso dimentica.

Ma la vera svolta percettiva è avvenuta quando dodici anni fa, ho seguito un corso di Anatomia Esperienziale, un metodo che sviluppa la percezione del corpo dall’interno, rendendo quindi più chiare le sue reazioni al mondo esterno. Da allora ho iniziato a percepire la differenza tra una architettura progettata in base a concetti formali e un progetto che tiene conto della esperienza corporea ed emotiva di chi abiterà quel palazzo, percorrerà quella via, frequenterà quella piazza. E’ una differenza che percepisci con chiarezza quando passi, ad esempio, da una struttura molto concettosa -come quelle di Le Corbusier- a un edificio più organico, come uno di quelli progettati da Alvar Aalto. Oppure se si pensa alla differenza tra il passeggiare in un centro commerciale rispetto alla piazza silenziosa di un centro storico. Il successo dei centri storici non dipende solo dal fatto che sono luoghi di memoria. Sono convinta che c’è qualcos’altro, invece, che ci fa entrare in uno stato di coscienza più viscerale e che questo ‘altro’ dipende dalla fisicità degli architetti che li hanno progettati, dal loro essere a contatto con le sensazioni del corpo”.

Frank Lloyd Wright racconta, per esempio, che guidava i suoi studenti all’azione per mezzo della scure, della sega, della pialla, del martello, della vanga e della zappa. Facendo scalpellare la pietra, dipingere le pareti, facendoli cucinare e lavare i piatti. Solo in un secondo tempo veniva la pratica dell’uso della riga, della squadra, del tavolo da disegno.
Qualsiasi muratore sarebbe contento nel leggere queste parole. E forse non solo i muratori. “Per diventare bravi progettisti è importante fare attenzione alle sensazioni del proprio corpo quando si attraversa uno spazio”, spiega Alberico Belgiojoso, ordinario di Progettazione architettonica e urbana al Politecnico di Milano. “Non ci possono essere sani criteri di progettazione senza questa elementare esperienza fisica. Uno spazio genera sensazioni piacevoli o spiacevoli e io, come architetto, devo essere in grado di capire da che cosa dipendono: l’altezza del soffitto, la presenza di specchi, la particolare angolazione delle pareti. Sono proprio queste sensazioni che mi guidano nel progetto”. Se lo spazio ha un effetto sulla psiche e sul corpo, è logico domandarsi quali sono i meccanismi fisiologici che regolano questo processo.

“Quando entri nel monastero zen Daitoku-ji, a Kyoto, e ti trovi di fronte al suo giardino di pietra, entri repentinamente in uno spazio mentale completamente diverso rispetto a pochi istanti prima”, spiega Jader Tolja, docente del corso sulle relazioni tra spazio, corpo e mente al Politecnico. “Ma non occorre andare in Giappone per trovarsi in una dimensione simile. Al mare, davanti a un orizzonte senza limiti, la frequenza delle onde celebrali rallenta e si attivano le strutture più interne e profonde del cervello, come negli stati di meditazione. In spazi come questi -in cui l’attenzione è attirata dal vuoto e non dal singolo oggetto- avviene anche un viraggio di attivazione dall’emisfero sinistro (quello analitico) al destro (quello artistico e intuitivo). Questi contesti offrono un vero e proprio recupero per la psiche e per il corpo. Non a caso il water-front (fronte mare) e le spiagge sono sempre stati considerati luoghi sacri e intoccabili: luoghi demaniali che non possono (o meglio, non potevano) essere venduti ai privati. Quando, al contrario, sei in un luogo progettato in modo mentale, come molti centri commerciali, lo stato di coscienza è dominato da una attività cerebrale veloce e superficiale. I pensieri diventano ossessivi ed è più facile che un qualsiasi problema acquisti dimensioni titaniche. Un quattro in matematica, un litigio con il fidanzato diventano pensieri che invadono la mente. Per questo, anche in città, ogni spazio vuoto, pulito, è un momento di respiro per il pensiero”.

“Quello degli spazi vuoti, in città, è un problema serio”, aggiunge Alberico Belgiojoso. “E’ un problema serio perché gli amministratori vorrebbero riempirli tutti. Non capiscono la bellezza e l’importanza del vuoto. Prendiamo Piazza del Duomo, a Milano. E’ più piena nella parte nord, dove batte il sole, e più vuota a sud e subito qualcuno ci ha chiesto di trovare un’idea per riempirla. Ma chi fruisce la piazza prova piacere nel vedere che una parte è più vuota. Anche in Piazzetta Reale volevano che mettessimo dei padiglioni, per attirare gente. La direzione da seguire è del tutto diversa: abbiamo studiato a lungo il centro di Kuwait City proprio per fare in modo che ci fossero anche luoghi poco frequentati, come piazzette ben raggiungibili ma non attraversate da strade. Faceva parte delle nostre scelte progettuali, per ottenere qualità urbana, creare momenti di alternanza: punti di massimo affollamento, che ti danno la sensazione di partecipare alla vita collettiva, e punti vuoti, per stare più tranquilli e riposare la testa”.

Gli studi delle neuroscienze confermano le intuizioni della architettura e dell’urbanistica più avanzate: è proprio l’alternanza tra pieno e vuoto a generare un bilanciamento dei due emisferi del cervello, e a creare un vantaggio significativo per lo sviluppo dell’intelligenza. Come diceva anche Niels Bohr, uno dei padri della fisica quantistica, “Pensare è molto più che essere semplicemente logici”. E numerosi studi scientifici, come quello dello psicosociologo californiano David Loye, permettono di affermare che le persone che raggiungono un miglior equilibrio tra emisfero destro e sinistro del cervello raggiungono anche un rapporto migliore con la realtà e una intelligenza più completa.

Ma quali possono essere altre conseguenze di una progettazione che non tiene più conto delle sensazioni del corpo? “Una mente non radicata nel corpo e nel sentire è tendenzialmente rigida e ha più bisogno di tenere tutto sotto controllo” osserva ancora Tolja “Ed è proprio da questo bisogno di controllo e di prevedibilità che nascono due tendenze molto significative della contemporaneità: la ‘macdonaldizzazione’ -che livella qualsiasi individualità dei luoghi con le stesse insegne e le stesse strutture- e la ‘disneylandizzazione’ , il falso che diventa meglio del reale. Tanto più c’è appiattimento e mancanza d’’anima’, quanto maggiore è la necessità di creare spazi artificiali. Entrambe le tendenze sono forme che compensano una mancanza di sensazioni reali e di autenticità. Il problema in questo caso è che tutti subiamo queste scelte. Perchè non sono solo i progettisti con le loro menti e i loro corpi a impregnare gli spazi. Questi a loro volta plasmano la mente e il corpo di chi ne usufruisce ”.

R. Denicolò

Da La Repubblica

 


Sulle relazioni tra spazio, corpo e mente non esistono ancora testi monografici. Si possono tuttavia trovare capitoli interessanti in diversi libri. Eccone un elenco misto.
James Hillman , ‘Enorme è brutto’, ‘Bellezza naturale senza natura’, ‘La pratica della bellezza’, da La politica della Bellezza (Moretti&Vitali Editore)
Gorge Ritzer , ‘Prevedibilità: non piove mai su quella casetta sul pendio’ da Il mondo di Mc Donald’s, (Il Mulino)
Gorge Ritzer, ‘Reincanto: l’implosione, il tempo e lo spazio’ da La religione dei consumi (Il Mulino)
Jader Tolja, Francesca Speciani, ‘Il corpo nello spazio, lo spazio nel corpo’,Organizzazione dell’ambiente, organizzazione del corpo’, da Pensare col corpo (Zelig Editore)
Kevin Lynch, ‘Il senso dell’insieme’, da L’immagine della città (Etas)
Betty Edwards, ‘Percezione della forma degli spazi: gli aspetti positivi dello spazio negativo’, da Disegnare col cervello destro (Longanesi)

 

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